DEGLI IMPRINTING


SEQUENZA VARIEGATA


Potrà sembrare bizzarro riconoscere nel proprio imprinting un luogo che si dispiega per una lunghezza di circa 30 km e che, oltretutto, è perlopiù considerato uno strumento per raggiungere altri luoghi. Parlo ovviamente di una strada, anzi, di uno specifico tratto della via Appia che congiunge il quartiere Tuscolano di Roma con la zona dei Castelli Romani. Impossibile restringere il campo, specialmente se si è soliti percorrerlo in auto, tutto d’un fiato. Ho dovuto persino cercarne le dimensioni effettive su Google Maps, per farvi capire quanta poca percezione io abbia della reale distanza che ho percorso mille volte. No, non è un posto magico, né meravigliosamente bello, ma è talmente bizzarro e variegato che non può non suscitare curiosità. Come molte altre consolari, nel corso degli ultimi anni la via Appia è stata sommersa da una serie di edifici desiderosi di ottenere un accesso diretto ad una delle arterie più importanti della capitale ma conserva, a stento, porzioni di agro romano e folte pinete, oltre ad attraversare borghi storici sovraffollati di giorno e semideserti di notte.
 Come dicevo, è una strada che ho percorso molte volte.
Da piccolina viaggiavo seduta nella 126 accanto a mia madre. Lei era raggiante ogni qual volta avesse l’occasione di tornare a passeggiare nel quartiere romano in cui era cresciuta e che tanto le mancava. Sono sempre più convinta che questo suo entusiasmo travolgente mi abbia spinto a preferire di gran lunga il caos e l’energia del paesaggio cittadino alla quiete e alla flemma della provincia.
Ad ogni viaggio, scendevo dalla macchina un po’ frastornata: avrei voluto esplorare alcuni luoghi e scappare a gambe levate da altri; non capivo perché alcuni tratti di strada mi piacessero così tanto ed altri mi facessero quasi paura. Il mondo visto dal finestrino ha il vantaggio (o lo svantaggio) di presentarsi agli occhi ed imprimersi nella memoria senza tangerti davvero.
Da grande, solitaria al volante, osservo la strada con la lente ormai cronica della studentessa di architettura. Credo sia proprio questo il luogo in cui ho sentito la necessità di capire a fondo le relazioni che si instaurano tra gli spazi che attraversiamo. È qui che torno quando ho bisogno di fare una pausa senza perdere la concentrazione. Si tratta del mio personalissimo repertorio, pressoché infinito, da cui trarre ispirazione e riordinare le idee. Le quinte ordinate dell’Appio-Latino, la sconfinatezza del parco della Caffarella, il disordine della zona industriale, la magnificenza di Palazzo Chigi e della Chiesa del Bernini. Una sequenza di scenari che, se catalogati, potrebbero già costituire un piccolo campionario di paesaggio italiano. Sarebbe sufficiente soffermarsi su uno o due di questi posti per capire la crucialità delle proporzioni, del verde, del rapporto tra pieno e vuoto. Me ne accorgo quando arrivo, ad esempio, all’altezza di Albano: l’Appia si stringe, le macchine in doppia fila con le loro frecce lampeggianti sono ovunque, sei costretto a rallentare, se non a fermarti. Eppure non ti pesa. Lì per lì, l’istinto è quello di sbuffare e cambiare strada ma poi la tua attenzione si posa sul viavai di gente che spunta da ogni dove ed è inevitabile chiedersi cosa mai spinga un mucchio di persone ad ammassarsi su di un marciapiede strettissimo piuttosto che chiacchierare sedute su una panchina nella piazzetta qualche metro più in là. E perché il ponte di Ariccia, così spoglio e desolato, ospita sempre tanti passanti pensierosi? Cosa li spinge ad arrestare la loro passeggiata in mezzo al nulla? Quando posso, torno indietro e riguardo meglio la zona industriale, gli insediamenti abusivi più recenti, le nuove zone residenziali e segno mentalmente le differenze colte di volta in volta. Piccoli promemoria per ricordarmi di non progettare la piazzetta in cui non si siede mai nessuno.

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